La paura delle epidemie

Descrizione

Gli accadimenti del 2020 hanno riportato all’attualità un tema che ha percorso ininterrottamente la storia dell’intera Europa nei secoli scorsi ma che, dalle nostre ultime  generazioni, era stato considerato superato e dimenticato. Anche il nostro territorio ha vissuto il propagarsi di malattie di diversa origine e fatalità: seppur con rapidità diversa rispetto a quella indotta dalla globalizzazione, la paura da esse generate era ancor più forte di oggi, per la mancanza di cure, strumenti, medicinali.

Le epidemie si muovevano molto lentamente ma attaccavano delle popolazioni il cui stato di salute non era generalmente solido come quello attuale, in particolare per la limitata varietà dell’alimentazione. D’altro canto, la durata della vita era più ridotta rispetto a oggi e il pensiero comune era molto più sereno nei confronti della morte. Nell’Alto Medioevo, l’aspettativa di vita era di circa 35-40 anni; superata l’età adolescenziale, la speranza raggiungeva i 60 anni solo per i benestanti. Ancora nell’Ottocento erano rare le persone che raggiungevano i 70 anni e altissima la mortalità infantile. Oggi la speranza di vita in Italia, supera gli 80 anni anche per gli uomini [1], che sappiamo essere universalmente meno longevi delle donne.

Il rapporto tra i nostri antenati e le epidemie, attraverso le testimonianze d’epoca, svela quali modalità, pratiche, religiose e simboliche, fossero adottare per farne fronte.

 

La peste e i lazzaretti

Il termine peste deriva dal latino pestis, “distruzione”, “rovina”, e ha indicato, in età medievale, tutte quelle epidemie caratterizzate da alta mortalità e diffusione. Dal Trecento si parlò di peste nera, poichè tra i sintomi vi erano la comparsa di macchie scure sulla pelle, segno di emorragie.

Nella nostra zona le manifestazioni più importanti avvennero nel 1576-77 (la cosidetta peste di San Carlo) e nel 1629-33 (quella ricordata ne I Promessi Sposi). A causa di quest’ultima, sopravvissero a Milano solo 64000 persone su 150000; nei paesi del Contado, la mortalità dovette essere simile e stimabile in almeno un terzo della popolazione. Le conseguenze economiche furono gravissime e si ripercossero anche sulla generazione successiva.

I lazzaretti erano i luoghi di confinamento istituiti per isolare i portatori di malattie contagiose, in particolar modo durante le epidemie di peste. Proprio in coincidenza della diffusione di questa morbo nel 1468 si ebbe l’idea di un primo lazzaretto per la città di Milano, ma il progetto fu accantonato; sarebbe stato edificato – con un lavoro molto lento e laborioso – tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento fuori da Porta Orientale, ed era costituito da un grande porticato a pianta rettangolare.

Nella stessa epoca anche i paesi di campagna si dovettero dotare di lazzaretti, tipicamente localizzati nelle brughiere e a sufficiente distanza dal centro abitato.

A Mozzate si trovava nelle campagne a oriente di San Martino, ed è ancora testimoniato dall’omonima via. A Carbonate era stato organizzato a sud-est del paese, vicino a dove poi fu scavato il Cavo Gradeluso. A Tradate il lazzaretto era oltre il Monte Oliveto, nell’attuale Via delle Viti, mentre ad Abbiate in vicolo Torrino, dove ancora vi è una piccola edicola mariana [2]: in entrambi i casi, in zone di ronchi e boscaglie.

Ad Appiano la chiesa del Lazzaretto è sul sentiero LP, in prossimità del cimitero. Anche a Vedano ve n’è una, nella località eponima, visibile sul sentiero 584. Fu edificata all’indomani dell’epidemia del 1577.

Lazzaretto di Vedano Olona
Chiesa del lazzaretto di Vedano Olona

 

La pellagra

Questa malattia era causata dalla mancanza di apporto vitaminico del gruppo B, tipico di quelle popolazioni che si nutrivano prevalentemente di derivati del granoturco, come la polenta. Pur non essendo contagiosa, ebbe grande diffusione in tutta l’Italia Settentrionale tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Nel 1830 colpi 23 Comuni del Comasco e, solo nel Distretto di Appiano, si contarono 378 pellagrosi; questo e quello di Tradate, furono i più colpiti di tutta la Lomabardia. A Carbonate, tra il 1819 e il 1867, morirono 32 persone [3].

Lo sviluppo della pellagra fu favorito dalle carestie del 1816 e del 1817, nonchè dal progressivo ridursi delle produzioni vitivinicole e della bachicoltura, che permettevano entrate supplementari a quelle strettamente agricole. Tuttò ciò portò molte famiglie rurali a un livello di vita di mera sussistenza. Inoltre, alcuni cereali, molto presenti nella dieta precedente – come grano, sorgo, miglio, orzo – furono abbandonati a favore del mais.

«É veramente giornaliero cibo e quasi solo ormai del nostro contadio è la polenta di farina di mays, ch’ei divorasi calda al mattino, fredda a merenda e a cena, fino a sette o otto libre da dodici once per pasto [da 2,3 a 2,6 kg. NdR], o il pane giallo della stessa farina, mal cotto, preparato d’ordinario d’otto in otto giorni in grosse pagnotte. E fanno da companatico tre o quattro once [ 80 o 100 g. NdR] di legumi e verdure condite con olio di lino, talora qualche magro caseoso o un po’ di latte inacidito, assai di rado un frusto di majale salato, o pesce in salmoia, o pochi pesciolini fritti col detto olio. Non ogni famiglia può alla sera aversi un po’ di minestra di scarsa pasta e di verdure, con mistavi polenta e pan giallo; nè la polenta è ben cotta, scarseggiando la legna; e al povero e al bracciante s’imbandisce per lo più con grano d’infima qualità, macchiato dal verderame [Ustilago maydis, il fungo parassita del mais. NdR.]»

(L. Balardini, “Sullo stato attuale della questione della Pellagra in Italia”, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1858-1861, Tipografia Apollonio, Brescia, 1862, p. 74)

 

Il colera del 1867

Era detto il “morbo asiatico” a motivo della sua provenienza, poichè endemico dell’India e aree limitrofe, ma anche dell’Africa centrale. La malattia è causata da un bacillo (Vibrio cholerae) che, introdottosi nell’organismo, si moltiplica nell’apparato digerente procurando una tossinfezione con potenziali esiti fatali, soprattutto in individui già debilitati.

Le nostre popolazioni, appena uscite da decenni di pellagra, si trovarono a che fare con una nuova malattia, ancor più pericolosa. Si ritiene che il colera sia entrato in Europa nel corso dell’Ottocento a causa di movimenti militari e commerciali dell’Inghilterra nel continente indiano. L’Italia visse sei ondate epidemiche, dal 1835 al 1893. Quella del 1867 arrivò in Lombardia dalle aree portuali del Meridione. Nel luglio raggiunge la Provincia di Como (che al tempo includeva anche il Varesotto). Ad Appiano Gentile si predispose il lazzaretto, come luogo di “ospedalizzazione” di eventuali infetti. Nella popolazione si era diffusa la convizione che dei “monatti” avrebbero prelevato i malati gravi e, invece di condurli al lazzaretto, li avrebbero seppelliti vivi: il che era di ostacolo all’acconsentire, da parte delle famiglie, il trasferimento dei loro cari. L’origine di questa credenza veniva dal fatto che, alla Cascina Tavorella di Oltrona di San Mamette, durante l’epidemia del 1836, fu necessario seppellire i cadaveri in una fossa comune; per errore vi era stato trasportato un malato che però non era morto. Costui si risvegliò e fu ritrovato seduto al margine della fossa il mattino seguente; fu portato al lazzaretto e guarì [4]. Simili convinzioni esistevano riguardo ai nuovi medici: qualora se ne fosse stabilito uno nuovo in paese, molti avrebbero creduto che sarebbe stato lui a spargere una “polverina” per diffondere un’epidemia [5]. Gli eventi terminarono con sei morti per colera fulminante, ma non fu necessario trasferire nessuno al lazzaretto. A Carbonate, tra il 1836 e il 1867, si contarono 12 decessi per colera e tre per febbre tifoide [6].

A Venegono Superiore è venne data pubblicità delle misure da tenere per proteggersi dal colera:

«Siccome il colera e attaccaticcio, è necessario usare tutti i riguardi che impone questo carattere del morbo; bisogne evitare gli affollamenti, gli inutili contatti, non trascurare di lavarsi le mani sia non acqua fenificata [sanificata. NdR], sia con sapone fenificato, ogni qualvolta si entra in casa, ed a maggior ragione quando si ebbe occasione di toccare un ammalato di colera, o qualche oggetto che gli è appartenuto»

(Circolare della Commissione Straordinaria di Sanità di Milano, 1884. In: R. Lucato, Venegono Superiore. Cronache di vita comunale. Ottocento, Azzate, 1999, p.128)

 

 

[1] Report 2019 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

[2] Ricerca inedita dell’ing. Luciano Golzi Saporiti.

[3] M. L. Frontini, Carbonate tra cronaca e storia, Il Punto, Carbonate, 1994, p. 103-104.

[4] P. Grilloni, Appiano. Notizie storiche statistiche illustrative, Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi, 1927, p. 20.

[5] Ibidem.

[6] M. L. Frontini, Carbonate tra cronaca e storia, Il Punto, Carbonate, 1994, p. 101.

 

Autore

Matteo Colaone