I ronchi e la loro creazione

Descrizione

In tutta l’Italia settentrionale è facile incontrare il toponimo “Ronco”. Spesso associato a un appellativo, lo ritroviamo nel nome di comuni e paesi: Ronco Briantino (MB), Roncobello (BG), Ronco Canavese (TO), Ronco Scrivia (GE), Ronchi dei Legionari (GO) e tanti altri. Frequentando il Parco della Pineta, lo si incontra indicando una località o un edificio: i Ronchi di Abbiate, di Tradate, di Castelnuovo…, Roncalbino, Roncobello, Ronco Zero…

Il ronco è dunque una tipologia di insediamento rurale propria dell’ambito padano-alpino, costituita da un terreno sottratto al bosco e coltivato a vigna e piante da frutto. Spesso è accompagnato da un piccolo edificio, originariamente utilizzato solo per riporre gli attrezzi e le derrate.

ronco
L’edificio di un ronco in territorio di Abbiate. La facciata riporta l’anno di costruzione, 1878. Foto: Matteo Colaone.

Capire cosa siano esattamente i ronchi permette di apprezzare le tecniche tradizionali di cura e manutenzione dei terreni, oltre che riuscire ad osservarli con un occhio più attento. I sentieri  844 e 542 percorrono località che ospitano ronchi, rispettivamente nei territori di Abbiate Guazzone e Tradate

 

L’origine dei ronchi

L’etimologia della parola ronco viene dal verbo latino ‘runcare’ che significa eliminare la vegetazione naturale da un terreno, il diserbarlo e sarchiarlo, specificamente per renderlo coltivabile. Dalla stessa radice proviene la parola italiana roncola, che è quell’attrezzo agricolo a lama a taglio di forma curva detto in lombardo fòlc o folciòtt.

Una roncola di foggia tradizionale. Foto: Lombardia Beni Culturali.

La conversione di boschi ad alto fusto in ronchi iniziò con tutta probabilità nell’Alto Medioevo e si protrasse fino in epoca moderna. In origine il ronco si costituiva unicamente come un terreno agricolo, specialmente dedicato alla coltivazione della vigna, degli alberi da frutto e, in minor parte di cereali e ortaggi. Successivamente, all’interno della proprietà fu d’uso costruire dei capanni in legno per la rimessa degli attrezzi e dei prodotti, poi evolutisi in piccoli edifici in muratura, spesso con un discreto sviluppo verticale, arrivando ai due piani e dotati di alcune comodità, come un arredamento minimo e un focolare. Spesso il piano superiore era raggiungibile solo esternamente, appoggiando una scala a pioli, e fungeva da magazzino.

La procedura di conversione di un bosco a ronco prevedeva come prima operazione l’eliminazione degli alberi ad alto fusto, ossia lo scasso (scass). Per scassare (scassà) si scavava una fossa attorno a ogni singola pianta, esponendone così le radici; queste venivano tagliate facendo crollare l’intero albero. Il lavoro, che si è eseguito con queste modalità fino ai primi del Novecento, permetteva di risparmiare lo sforzo di tagliare grandi tronchi dal ceppo e aveva il vantaggio di rimuovere automaticamente il grosso delle radici dal terreno. Successivamente il suolo veniva liberato dalla vegetazione minore e dai sassi più ingombranti, vangato o arato , livellato e, infine, predisposto per la coltivazione, tutto – ovviamente – tramite strumenti per lo più manuali.

 

I terrazzamenti

Non sempre i ronchi si sviluppavano su superfici piane, pertanto era necessario lavorare le rive e le coste così da renderle efficienti e comode per l’agricoltura. Ciò era possibile costruendo dei terrazzamenti. Il procedimento non consisteva semplicemente nel realizzare un muro e riempire di terra lo spazio a monte, come si potrebbe credere. Per prima cosa si doveva radunare una sufficiente quantià di pietrame che – nel nostro territorio – era per lo più costituito da ciottoli, sebbene i sassi squadrati fossero preferiti. Si intagliava una lunga tacca dritta e parallela alla riva e alla base del pendio, nella quale si incassavano le pietre di calibro più grosso, salendo a strati  fino a creare un muretto di circa 40 cm di altezza. Si zappava poi la terra appena a monte, riempiendo solo lo spazio tra il pendio e il muretto. Si ripeteva quindi l’operazione alzando di un un successivo livello, usando sassi di calibro via via inferiore, e proseguendo a spostare la terra da monte a valle. Si otteneva così un gradone la cui altezza doveva essere idonea ad aver sviluppato una sufficiente superficie piana (la pianella). Qualora il terrazzo fosse risultato molto alto, si potevano creare dei varchi trasversali, dotati di gradini di sasso. L’ultima operazione consisteva nel raccogliere terra di bosco, quindi “grassa”, in una gerla e trasferirla a coprire la pianella e renderla più stabile, livellata e fertile. In taluni casi si poteva, sul gradone più alto, ricavare dei fossetti ricoperti di argilla, dove raccogliere l’acqua piovana o, d’inverno, accumularvi neve che si sarebbe poi sciolta.

Alcune colline del Parco, oggi boscate, nascondono ancora queste forme create dall’uomo. A volte è possibile individuare se la larghezza di alcune pianelle fosse predisposta per il passaggio di carri o solo per l’accesso a piedi.

Il bisogno di terra fertile, per una comunità che si fondava sull’agricoltura, era vitale. Una famiglia che possedeva o lavorava solo un ronco non poteva considerarsi benestante, poichè le scarse rendite, integrate da qualche piccolo orto e qualche animale tenuto nella dimora urbana (la casa di corte), permettevano appena la sussistenza. Viceversa, chi possedeva più ampi spazi (la cascina) e campagna, poteva permettersi di vendere i propri prodotti e ricavare maggiore guadagno.

Autore

Matteo Colaone