Descrizione
Le sensazioni provocate dall’ambiente selvaggio e romantico della pineta di Appiano Gentile sono state descritte in modo formidabile dallo scrittore e giornalista comasco Carlo Linati (1878 – 1949). Viaggiatore e sportivo, Linati frequentava i nostri luoghi, attratto dal paesaggio e dall’osservazione delle piccole storie del popolo che incontrava; scrisse più di trenta libri e centinaia di articoli per diversi quotidiani e riviste della sua epoca.
Passeggiate lariane, del 1939, contiene il racconto “Appiano degli usignoli”, del quale riportiamo uno stralcio in questa pagina. Il volume originale, oggi ben valutato sul mercato antiquario, è disponibile anche in diverse riedizioni reperibili in libreria e in biblioteca: quella del 1999 delle edizioni Massimiliano Boni, quella parziale del 2000 in “Passeggiate all’Ovest” della Dialogolibri, e – infine – in quella dell’editore milanese Il Polifilo del 2009.
Chi è stato Carlo Linati
Nato nel 1878 da un’agiata famiglia comasca, in gioventù Linati fu onnivoro divoratore di classici e romantici, di naturalisti e decadenti d’ogni latitudine. Ricercò una scrittura innovativa, al tempo stesso calata nella “lombardità”, attenta alle “piccole patrie”, e sostanziata da una volontà di ritorno alla Natura.
Dopo i primi esperimenti, pervenne nel 1912 all’opera breve Duccio da Bontà, nella quale il protagonista è un’immagine dell’autore che si muove all’interno di un romanzo di formazione autobiografico ambientato sulle colline tra Breccia e Rebbio, proprio i luoghi nativi di Linati. Duccio vive, nel susseguirsi delle stagioni, la propria educazione sentimentale, facendo trasparire le qualità di un autore capace di distillare emozioni e colori dal paesaggio lombardo.
« Per me, accada quel che voglia quando ho il mio cielo, i miei alberi e il mio sole. »
In queste parole di Duccio, alias Linati, è tutto il senso della fedeltà alla natura luminosa e selvatica, che ne I doni della terra (1915), celebra il completamento di un’elaborazione di una propria poetica. La cifra stilistica è quella del bozzetto, del frammento lirico, in cui si lasciano fluire le voci di quel “piccolo mondo” che tanto Linati bene conosce. Ancorché mal sopportasse l’etichetta di “frammentista” cucitagli addosso dalla critica, indubbiamente gli esiti maggiori dell’attività letteraria linatiana risiedono proprio nella miniatura naturalistica e nel ritratto antropico, pagine che ritroviamo, oltre che nei libri, anche negli elzeviri che andava pubblicando sulle terze pagine di quotidiani nazionali quali il Corriere della Sera e La Stampa, ma anche su L’Ambrosiano, La Provincia di Como, la Gazzetta ticinese e il Corriere del Ticino.
Firma affermata, nel 1919 Linati diede alle stampe Sulle orme di Renzo, composto negli anni di guerra. Significativo il sottotitolo, “pagine di fedeltà lombarda”, affermazione che sottende la sua volontà di seguire la strada dei “padri”: Verri e Beccaria, Porta e Correnti, Cantù e Cattaneo, Dossi e Lucini, oltre che Manzoni. Linati riconosce in Renzo Tramaglino “il simbolo più schietto della nostra terra” e ne ripercorre l’itinerario, da Milano verso l’Adda, in un appassionato viaggio alle fonti della “lombardità”, vagheggiando un “panteismo lombardo” che supera il Manzoni paesista, trasformandolo in attualità gioiosa e solare, liberandolo da preoccupazioni religiose e angosce escatologiche.
A cadenze quasi annuali seguiranno decine di volumi in cui lo slancio emotivo e originalità espressiva lasciarono via via spazio al “mestiere”,a una scrittura elegante e discorsiva. Tra il 1920 e il 1930 sono gli anni di maggiore successo di pubblico: negli appunti lariani de Le tre pievi (1922), nell’inconsueto Storie di bestie e di fantasmi (1925), nel caldo e rievocativo Memorie a zig-zag (1929), ne La regione dei laghi (1931), una deliziosa guida pubblicata col concorso di altri noti letterati dell’epoca, e in Concerto variato (1933).
In Linati si cristallizza, col tempo, un moralismo nostalgico fortemente critico nei riguardi della “stupida e caotica volgarità” contemporanea, cui egli oppone
« riserbo e pudore lombardo, bramosia di perfezione, scrupolosità dai piedi di piombo che i buoni meridionali prendono per pesantezza gotica e non è che stupenda devozione alla rettitudine, alla tradizione, purezza profonda, sdegno di viltà e di compromesso »
Cimentatosi anche in alcuni romanzi psicologici, ma non ben ricevuti dalla critica, tornò alle atmosfere dei suoi laghi e dei suoi monti (era divenuto, frattanto,firma di spicco del Touring Club). Passeggiate lariane è tra i pochissimi suoi libri ancor oggi ricordati, così come – sempre del 1939 – A vento e a sole.
Nella sua carriera, Linati fu anche traduttore: coltivò collaborazioni e amicizie con Ezra Pound, James Joyce e altri autori anglosassoni. Pound lo stimò sempre: in una lettera del 1958, egli ricorda, nello stantio panorama delle “patrie lettere”, quanto solerte “il povero vecchio Linati soleva essere” nel divulgare presso di noi i nuovi autori di lingua inglese.
Nella sua diradata produzione senile, infine, merita d’esser ricordato Milano d’allora (1946), memoria nostalgica e struggente di una città d’inizio secolo già in via di modernizzazione. Morì nella sua casa di Rebbio l’11 dicembre del 1949.
Da “La mia terra”, in I doni della terra, 1915.
« Guardo la mia terra. Nella penombra eguale e gran limpidezza d’arie che il vento v’ha recato, la varietà delle sue strutture vi sta minuziosamento segnata: grandiosa acquaforte.
I macchioni verde scuri che ammantano poggi e colline assaltano da ogni parte il verde idilliaco della campagna aperta a praterie acquose, punteggiata a filari di gelsi, rigata in sui dossi a vigneti e a pianori.
Quei macchioni che si dilungano, cavalcando alture sempre più frequenti, verso la dolce regione dei laghi pariniani danno alcunché d’antico al paesaggio: selvoso richiamo all’origine druidica del paese. Il quale raccoglie la sua più intima bellezza nella campagna. Là è veramente la terra forte e grave che mi è sorella, la creatura fatta di grazia sobria e intenta, chiusa in una perenne meditazione di sé medesima.
Sino all’orizzonte, stipati da non lasciare un sol spiazzo selvatico, monta la stesa dei rettangoli campestri. Vi sono stemperate tutte le sfumature del verde, da quello cupo dei trifoglieti a quello aurato dei pabbi, e i gelsi che vi stan disposti a filari, paion la danza leggera di una moltitudine su quell’intavolato immenso. Appaiono le figure più originali della mia terra. Casine col noce sul fianco, contornate da pergolati d’uve o raggruppate intorno a un’aia candida: torrentelli segnati da una sinuosa linea di pioppi: bassure paludose dove una pennellata di prato ride tra l’opaco delle roveri: fornaci che drizzano le ciminiere in mezzo a boschine di betulle o stendono i lunghi tetti rosseggianti presso la cava di galestro cretoso: penne argentee di convogli in corsa verso piccole stazioni rallegrate da aiole di zinnie e balsamine: polverosi stradoni dove il canto de’ barrocciai è intramezzato dal crepitare delle motociclette che, di lassù, pare lo sbattito di un cuore malato che corra alla morte: è infine l’odore che si leva da queste distese, odore di campo di pietra e brughiera, odor grande di Lombardia. »
Da “Appiano degli usignoli”, in Passeggiate lariane, 1939.
« Quante volte, fin da ragazzo, io son venuto ad aggirarmi fra gl’intrighi e le ombrie di questa grande pineta lombarda!
Questa Città di Verde, questa grandiosa metropoli vegetale mi fu amica quando era ancora intatta nei suoi tronchi maestosi e le piante venivan lasciate crescere come volevano, e mi è amica ancora adesso che han fatto tagliare un po’ da ogni parte e che la crudità dei tempi ha assottigliato e impoverito la selva. Ma ci torno con l’istesso cuore e l’istesso piacere.
Oggi, in mezzo al tessuto della selva, dove han potuto sottrarre un po’ di humus alla dura compagine dei suoi terreni cretacei, hanno aperto campi e prati, fabbricato casolari, piantato gelsi: per cui, non più così solenne come un tempo, la si potrebbe paragonare ad uno splendido broccato ragnato dalle tarme. Con tutto questo si possono ancora fare chilometri e chilometri
dentro la selva, perdersi alla ventura per i suoi infiniti sentieri, per le sue ombre, senza inciampar anima viva. E questo è il suo bello. Solo la gigantesca moltitudine dei pini vecchi e giovani, attruppati o sciolti, vi è compagna in quel vagabondaggio, mentre l’odore corsaro delle resine vi alita intorno inebriante come non so che aura mistica del meriggio solatio. Esso vi riporta l’anima
verso un arcano paese di adolescenza, verso non so che ancestrale paese d’aromi. Io passo in mezzo a tutti questi pini come un buon amico di casa. Siamo ai primi di giugno e la fioritura delle ginestre, quella loro folle risata gialla e profumata, esplode fra i tronchi con gridi di follìa e di saluto.[…] Un meriggio passato nel pineto, che lezione di purezza!
Più m’addentro più la moltitudine si fa fitta e par che mi si stringa addosso. Dopo pochi minuti io mi sento veramente prigioniero di questa folla verde ed attenta e sento di dover piegare il mio essere alla sua legge.
Ormai sono immerso in questa grande famiglia silenziosa, eretta, un poco solenne, a cui le folate di vento strappano lunghi sospiri misteriosi che si dileguano come parole appena balbettate, giù giù per la grande pianura.
Il pineto ha le sue brave piccole alture e fenditure in fondo alle quali scorre qualche rigagnolo che talvolta arriva persino a diventar torrente, come quel Bozzente a cui affluiscono le acque di ruscelli di minor conto, quali l’Antiga e la Rogoretta: sconsolati burrati dai fianchi grondanti di terre rosse.
Ma se poi vi vien fatto di salire s’una breve eminenza ecco che la selva vi si apre davanti e vi mostra là in fondo alla pianura il Monrosa con tutte le sue propaggini nevate, terribile e immateriale montagna, sospesa tra azzurro e selva, come un Valalla. »
Autore
Matteo Colaone